Confine#1 – Come rendere luminosa l’ombra.
di Filippo di Giacomo
Di Filippo di Giacomo
Quando nel 1727, durante alcuni esperimenti con carbonato di calcio, acqua regia, acido nitrico e argento, lo scienziato tedesco Johann Heinrich Schulze scoprì che la miscela reagiva alla luce e chiamò il suo procedimento scotophorus, portatrice di tenebre. Per far diventare questo composto primordiale phos-graphis, scrittura con la luce, bisognerà aspettare ancora qualche decennio quando un altro scienziato tedesco, un astronomo, John F. W. Herschel propose il nome “fotografia” (e anche “negativo” e “positivo”) in sostituzione di quelle strane espressioni (dagherrotipia, calotipia e antotipia) che erano succedute alla minacciosa parola “scotophorus”.
E lo «scrivere con la luce» diventa assai pregnante quando si tenta la rappresentazione di un volto umano: un soggetto caratterizzato da una precisa individuazione formale che, tuttavia, non comporta necessariamente un’equivalenza tra il volto e la sua rappresentazione. Perché, «scrivere con la luce» (e con le ombre) le sembianze di una persona, cogliere l’insieme di segni che la caratterizzano, costituisce una scelta di campo, l’individuazione e la captazione di un carattere che ne costituisce il senso. E quindi, dopo il click, nella “camera oscura” (termine molto antico, del 1039, dovuto allo scienziato arabo Alhazen Ibn Al-Haitham che così chiamò la scatola nella quale tutte le immagini si riproducevano) dove luce e ombre scrivono i segni di ciò che il fotografo ha visto, il volto diventa “rappresentazione” e assume un significato simbolico, entra nel grande “teatro della realt”, dove le identità vengono interpretate e riprodotte nella loro essenza originaria, per essere fissate in un riquadro visivo in grado di restituirne i caratteri fondamentali e distintivi. Per questo, i volti “scritti con la luce” molti anni fa da Fabrizio Borelli non ci parlano di “malati mentali” ma di persone solo apparentemente sole che hanno “scritto in faccia” la rappresentazione delle relazioni che intrattenevano, oppure subivano, con un universo (e un organizzazione: l’ospedale psichiatrico) di simboli psico-sociali che, pur con l’intenzione di garantire l’esperienza umana di ogni fragilità, tendevano fatalmente a manipolarne la rappresentazione sociale catalogandoli come “matti da manicomio”. Gli scatti della macchina fotografica di Borelli raccontano delle molteplici possibilità di deformazione del volto umano causate dalla psiche, ma non sembrano per nulla intenzionati a spingere colui che guarda a “prenderne possesso” (con il proprio giudizio, oppure con la propria pena).
Appaiono, invece, “emblematici”: vogliono restituire al volto fotografato il senso di una vera e propria appartenenza ad una identità, ad una comune identificazione sociale. E la foto diventa un punto di articolazione dei rapporti sociali e un mezzo visibile di espressione di un potenziale semiotico che concerne l’identità di tutti noi, tutti ugualmente coinvolti in un processo culturale di costruzione sociale attraverso categorie interpretative sempre più attente all’umanizzazione delle convenzioni che fondano il vivere sociale. Nella Bibbia, un poeta esclama rivolto a Dio: «Mostra il tuo volto e saremo salvi» (Salmo 79, 4). Anche se scattate in anni passati, le foto di Fabrizio Borelli sembrano contenere questo messaggio: in un Mondo in cui ci si affretta a costruire muri e barriere, proviamo a gridare «mostrami il tuo volto e saremo salvi» a qualcuno di quei nuovi disperati che i custodi dell’attuale momento socio-politico vorrebbero di nuovo contenere (“contenzione” era il termine con cui si inviavano i malati di mente in manicomio) dietro nuovi muri e dentro nuovi centri di isolamento…. Perché abituarsi a guardare il volto di coloro che abitano questa Terra significa disporsi con stupore di fronte alla realtà, relazionarsi e interagire in istituzioni e comunità disciplinate da regole stabilite socialmente. E così che anche aver «scritto con la luce» un volto contribuisce a trasformare la nostra percezione della realtà, a riflettere pragmaticamente sul perché le norme ciali che dobbiamo produrre debbano essere sempre e comunque umane, totalmente umane.